I nutrimenti del poeta – racconto di Rocambole Garufi

Capo Mulini (Catania), I nutrimenti del poeta

di Rocambole Garufi

Palpeggiava il cibo col palato, prima della penetrazione dei denti. I frutti di mare avevano l’odore dell’adolescenza, i funghi trifolati la pelle liscia e morbida, gli spaghetti la chioma guizzante ed i formaggi una forte ed inebriante trasudazione segreta. Gli piacevano, ancora, i peperoni arrostiti, robustosi, et prepotenti, et dolci. Gli rinnovavano il ricordo dei primi turbamenti, dei frammenti di pelle occhieggiati sotto le vesti severe delle lavandaie del suo paese. Mangiava volentieri gli involtini di carne, perché nascondevano delizie interne, che in qualche modo andavano attese, conquistate, svestite… E, per chiudere, a dire che tutto era stato gioco e perversione, andava bene il sapore lieve e gaio delle frutta, insieme alla dolcezza vischiosa e peccaminosa del gelato.

Perciò, la comparsa di Fina era quella di una moglie, più che di un’amante. Non per la firma al municipio, ovviamente. Fina era sua moglie nella quintessenza del loro rapporto. Finiti a letto, fra loro non ci furono grandi acrobazie. Ogni cosa accadde, con giusta metafora, a volo d’uccello. Un compitino svolto diligentemente, senza omettere alcun paragrafo. Mancava, però, il crescere dell’attesa. Per tre volte si esibirono e soltanto alla terza raggiunsero una parvenza di abbandono. Eppure, il loro, era amore, senza alcun dubbio. Lei lo dichiarava con tono di rimprovero. Lui, invece, aveva un sentimento criptico, sepolto in mille inconfessate vigliaccherie.

Dopo i primi incontri, credette di amarla come moglie perché non la pensò più come le precedenti femmes pour la nuit, dove i particolari che riemergono nella memoria sono frammenti di corpi, sensazioni, tecniche, contesti… o, più semplicemente, momenti della vita. Gli approcci furono i soliti. Lei lo accolse in vestaglia, il seno che chiamava sbarazzino dalla scollatura, e mise in funzione lo stereo: chitarra classica, con molto ritmo, arpeggi e rivoli di variazioni… Quasi un’indicazione su come procedere.

“Fermati, stasera” gli sussurrò.

Da quel momento, egli diventò irrimediabilmente marito, cioè lineare, leggibile interiormente. Il bacio rimase il loro contatto più sconquassante. Labbra contro labbra, giocando con le lingue… un accennare e un ritrarsi… un percorrere, in tutta la sua lunghezza, un solco metafora di un altro solco… un attardarsi sui denti, al pari di una pecora beata e senza coscienza!

Dopo, era subentrata la stanza. Piccola, con la tenue luce dell’abat-jour che le dava una smorta tonalità beige. Egli soffriva il caldo degli ambienti chiusi e mai sudò come in quella occasione. Pensava, tanto più, che si vedesse troppo la bianchiccia e gelatinosa rotondità del ventre.

Nei momenti in cui ci si riposava, Fina se ne stava nuda, seduta con la schiena contro il suo torace.

“Hai un forte odore” gli disse.

“E’ la traspirazione dei contadini.”

“Non mi riferivo alla traspirazione.”

Proprio questa presa di possesso dei suoi odori più segreti – sembrava interiorizzarli, dato che li aspirava con gli occhi chiusi – significò il vero matrimonio. Per la vita, nella grandezza e nella debolezza, nel piacere e nel dolore, egli era suo.

“Mi piace giocare” disse lui.

“Che vuol dire?”

“Che mi piacciono le donne.”

“E a me gli uomini…”

Finite le effusioni, lei gli cucinò un gran piatto di spaghetti col pomodoro, premurosa, cinguettante. Mentre raccoglievano il basilico in terrazza, lo abbracciò e dopo cena si sedette sulle sue ginocchia. Era una perfetta mogliettina, per allietare il riposo del guerriero.

Addò vado? Fora fa pure freddo!” cantava Franco Califano.

Ora poteva giurare di non saper più cosa fare. Due cavalli lanciati in direzioni opposte gli squartavano il cuore. Ad esser sincero, la donna gli faceva paura, perché sentiva che con lei finiva peggio che con la moglie.

In fondo, ella non gli regalava nessuna avventura nei mari del Sud, e neppure le malie della maga Circe, e manco il canto delle sirene, o la terribilità dei ciclopi, o i feaci e Nausicaa ingenua e innamorata… Tutto – tutto! – aveva, ormai, l’opacità dei ricordi di scuola. E, forse, Fina nasceva già come un ricordo. Doveva starle lontano. Doveva limitarsi a parlarne e scriverne. Doveva farla rimanere un fatto letterario… per poterla amare in eterno e crogiolarsela dentro, come la più importante delle occasioni perdute.

Appartenevano ad una generazione disperata, lui e lei! Essi, i creduloni, che portavano la fantasia al potere, fumavano lo spinello e predicavano l’amore libero… si accorgevano sempre di più di essere invecchiati dentro un mondo che… se cambiava… non cambiava come volevano loro e, soprattutto, non cambiava grazie a loro!

L’età e la storia – parola, questa, che non riusciva più a scrivere con la esse maiuscola – avevano comunicato che la ricreazione è finita – a dirla con De Gaulle -. La letteratura, come l’estremismo, è sempre una malattia infantile.

Fina pareva averlo aspettato, pur senza conoscerlo, conservando una castità molto più sostanziale di un imeneo intonso. Aveva mantenuto intatto il Sessantotto – un po’ aggrovigliato su se stesso, se volete, data la natura squisitamente maritale della sua proposta -.

La notte del loro primo bacio, a Capo Mulini, sotto Acireale, gli aveva detto:

“Cazzo! Dov’eri vent’anni fa?”

E questa fu l’ultima grande emozione della sua vita.

Ecco perché egli sapeva che non sarebbe più riuscito a fare a meno di lei.

Qualche sera dopo, telefonandole, aspettò a lungo… Dopo almeno sette squilli, sentì una strana nota nella sua voce.

“Prooonto…”

“Sono io.”

“Ah!”

“Disturbo?”

“Sì.”

E riattaccò.

Ebbe un brivido di freddo… Gli era sembrato di sentire una voce maschile che le sussurrava qualcosa… Ora, anche nella sua gelosia impotente, nel suo terrore di perderla, Fina ormai era sua moglie!