Il bollito di gallina di Agata Mariannina – Racconto di Rocambole S. P. Garufi

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Il brodo di Agata Mariannina

Racconto di Rocambole Garufi

Per almeno una settimana – il che, per i tempi di attenzione di Malandrìa, era quasi un’era geologica – la love story di Crocifisso Mazzacanagghia e di Lina Longo tenne occupati i pettegoli, cioè tutti, esclusi i bambini da zero a tre anni.

Nel quartiere di San Vitale si potè dire che le parrocchiane di Santa Giulia erano più leste ad alzare la gonna che a dir rosari. In compenso, a Santa Giulia la fece da padrone il maschilismo più becero.

“In ogni caso” fu la conclusione del rag. Bonaccorsi, “almeno noi, le nostre corna, ce le teniamo in famiglia!”

Cominciò la solita passeggiata di gruppo – quasi un’assemblea, una riunione del Comitato Centrale -, su e giù nella piazza davanti alle chiesa.

“L’uomo è cacciatore… sì!” osò obbiettare un il deviazionista di destra ‘Mmuccabaddi. “Ma, le nostre femmine non sono lepri!”

“Io so soltanto che la nostra rivoluzione è saltata una perché tu… tu…” ringhiò l’estremista e deviazionista di sinistra Cicco Cecca, ma anche noto nostalgico del ventennio mussoliniano, che, però, votava e faceva votare per il partito di centro dell’on. Arietta – colui che l’aveva sistemato come puliziere in una cooperativa -.

“Che mi parli di rivoluzione, tu? Fascistone!” lo redaguì Anselmo Bennato, radicale, progressista, divorzista, arbortista, femminista, laico e libertario… che, però, votava e faceva votare per il partito di centro dell’on. Arietta – che gli aveva fatto pure il dispetto di sistemarlo, sempre come puliziere, nella stessa cooperativa di Cicco Cecca -.

“Ecco qui! La solita persecuzione dei rossi!” accusò Cicco Cecca. “Ma, io non ho paura di te! Io resto fedele nei secoli, come l’arma dei carabinieri! Io non mi vendo per un piatto di lenticchie!”

“Per un piatto di lenticchie no, per un posto di puliziere sì!” commentò tristemente, cioè con il solito sospiro asmatico, il rag. Bonaccorsi, che votava per il partito di centro dell’on. Arietta per convinzione, cioè perché liberista e liberale – e non… come dicevano molti… per il posto di ragioniere che questi gli aveva fatto vincere al Comune -.

“Torniamo all’argomento!” disse Turi Tarantola, muratore tuttofare, che votava per il partito di centro dell’on. Arietta, ma dava ragione a tutti. “Lasciateli perdere i fascisti e i comunisti che giocavano a scopone… qui resta il fatto che Mazzacanagghia, leader carismatico di Santa Giulia, doveva farsi vivo e lottare insieme a noi… e non è venuto!”

“Proprio nell’ora fatale!” aggiunse il prof. Rosario Russo, sempre studioso di storia locale, apolitico – ma, per amicizia, votava per Arietta, quando questi era in lista, cioè in tutti gli appuntamenti elettorali -.

A quel punto, Mazzacanagghia alzò le spalle con sufficienza.

“Per quanto riguarda quelli di San Vitale… Beh! Ne sto pensando una che… li farà ballare senza musica, come i cornuti che sono!”

Il varco in cui Crocifisso Mazzacanagghia tentò di infilarsi si chiamava Pasquale Giummeri, fervente devoto di San Vitale, e la moglie Agata Mariannina, bella e bona, ma impermeabile alle vogliose occhiate di tutti i maschi sfaccendati del posto – cioè, di tutti i maschi -.

Mazzacanagghia ogni giorno si incontrava con Pasquale al Bar New York, per bere il solito caffè della mattina… alle sette spaccate, prima di prendere il pullman delle sette e mezzo per Nataca, città amata dallo scrittore Vitaliano Brancati.

“Ciao, Cro’” salutava Pasquale.

“‘ngiorno!” rispondeva Mazzacanagghia.

Sorbivano il caffè. Bollente, con le famose tre c; cioè, tale che a toccarlo con le labbra era d’obbligo esclamare in napoletano: cazzo, come coce!

Poi, subito, di furia, come una volta i contadini affamati sbocconcellavano il nero pane del lavoro, si davano a tirare lunghi fiati caldi dalle sigarette, in ricordo degli appena trascorsi tepori notturni.

“Che dici?… Cheffà piove, oggi?” a quel punto, invariabilmente, chiedeva Pasquale.

Mazzacanagghia, invariabilmente, guardava nel cielo, verso tramontana… e qualche volta rispondeva piove!, qualche altra non piove!

Così, l’amicizia fra i due era diventata esemplare. Era un fatto notevole che uno di San Vitale e uno di Santa Giulia viaggiassero insieme, il primo per fare l’operaio, il secondo il supplente di lettere nelle scuole medie.

La gente ci scherzava sopra e finì per chiamarli il gatto e la volpe. Naturalmente, la volpe era Mazzacanagghia, notoriamente lesto di parola, mentre Pasquale era un autentico micione sognatore.

Una mattina dei primi di dicembre, in cui l’alba siciliana aveva stentato a sciogliere il gelo che incanutiva l’erba della campagna di Malandrìa, la loro differenza di carattere venne fuori, parlando di Agata Mariannina, la moglie di Pasquale.

“Le femmine!… Le femmine sono tutte uguali!” affermò Mazzacanagghia.

“Non tutte” disse Pasquale.

“Tutte! Tutte!” insistette Mazzacanagghia.

La pelle di Pasquale si accese del colore della terracotta nel punto di fresca rottura. Le vene del suo collo salirono come dagli inferi e gocce di sudore errarono inquiete lungo la sua schiena.

Ma, non era aggressivo, l’ingenuo vitalino, e soprattutto era un gregario per natura… per cui disse con una vocetta fessa:

“Mia moglie, senza nulla togliere alle altre, è diversa.”

“Sì, certo!” sghignazzò Mazzacanagghia. “Quella cosa ce l’ha a mandorla, come gli occhi dei cinesi!”

“Mi colma di attenzioni…” buttò lì Pasquale.

“Una curiosità, così, tanto per saperci capire…” incalzò Mazzacanagghia. “Ci fai spesso… Mi spiego?”

Pasquale abbassò gli occhi. Pudibondo, come certe signorine dell’Ottocento, con l’ombrellino e la crinoline sotto la veste.

“Certo!” ammise.

“E allora!” sancì Mazzacanagghia. “Vediamola così… e tutto quadra, tutto si spiega, tutto si capisce!”

No che non si spiegava nulla! Pasquale si chiuse in un mutismo che, maliziosamente, Mazzacanagghia lasciò lavorare. Il dubbio cominciò a cucinargli la testa e dopo un bel po’, con l’occhio fisso ai manifesti pubblicitari appiccicati sui muri di Nataca, si azzardò a dar fiato al suo tormento.

“Credi che Agata non mi amerebbe, il giorno in cui…” chiese.

“E tu prova!” suggerì sornione Mazzacanagghia.

“Va là! Tu scherzi sempre!” volle cambiar discorso Pasquale.

Il pensiero, però, è un diavoletto che, se ti entra in testa, non lo scacci più. Ti avvelena ogni delizia, ti rivolta sgarbatamente la frittata nei momenti di abbandono. Perciò, anche dietro le attenzioni innoccenti (chessò, il caffè a letto, la poltrona più comoda davanti al televisore…) finisci per vederci un buco che diventa una voragine… che tutto inghiotte… in cui tutto ti perdi.

Giorni e giorni, Pasquale si dimenò nella ragnatela del pensiero. Cercò la moglie con più frequenza, per la teoria del chiodo schiaccia chiodo. Tornò spesso a casa, ora con una guantiera di cannoli di ricotta e di cassatelline, ora con un mazzo di rose, ora con un ninnolo di vetro di Murano. Venne la domenica e la portò fuori, dilapidando buona parte del salario in benzina e ristoranti…

Insomma, quasi quasi si comportava come i mariti che hanno da farsi perdonare una marachella extra-coniugale!

Purtroppo, poi, alzatasi la polvere della buona volontà, si ritrovava davanti il suo cattivo pensiero…

Intatto, indistruttibile, inamovibile, inagirabile!

Fu questo il motivo per cui si decise.

Una sera tornò dal lavoro con un’espressione tragica in viso.

“Oh, Dio mio, che hai?” chiese Agata, appena lo vide.

“Gli acidi!” rispose Pasquale.

“Gli acidi?”

“Quelli della fabbrica… Un’imporovvisa fuoruscita e…”

“Oh, Gesù! E…”

Pasquale tacque e si guardò sconsolatamente nel punto in cui sta la differenza. I suoi occhi divennero eloquentissima testimonianza del rimpianto per un bene ormai perduto.

“Oh, Madre Santa!” singhiozzò Agata, con la testa fra le mani.

“Ma non muore il nostro amore… Non è vero, tesoro?” guaì Pasquale.

“No, no… No!” sospirò Agata.

“Eppoi…” disse Pasquale fervidamente. “Il sesso è soltanto una parte… infinitesimale… della bellezza… tutta spirituale… del nostro rapporto.”

“Certo, certo… appunto!” confermò Agata.

I giorni, che se ne impipano dei drammi umani, si accingevano a riprendere il loro passare.

La prima sera Agata raddoppiò le sue premure verso il marito. Gli portò il brodo di pollo – in quella casa, era questa la medicina giusta in tutte le occasioni -. Glielo portò denso e bollente come piaceva a lui. Inoltre, la mattina successiva si alzò mezz’ora prima e con un bacio gli servì il caffè e il pane tostato, imburrato e con sopra cannella e zucchero.

“Mangia, tesoro” gli disse Agata dolcemente. “Lavori tanto e devi tenerti in forze!”

Che cos’altro poteva mancare alla felicità?

Al ritorno serale dell’indomani, però, ritrovò la moglie sulla soglia di casa, con un sorrisettino dolce, che le errava sulle labbra.

“Al supermercato c’era confusione” cinguettò. “Non me la sono sentita di fare la fila… Ho comprato del salame nel negozio di fronte… Per questa sera, ti accontenti?”

“Ma certo, amore!” la rassicurò lui.

La sera dopo, però, gli fu servito di nuovo pane e salame, questa volta senza scuse. Poi, nei successivi rientri a casa, tanto per cambiare, Agata, volta per volta, gli presentò:

Carne in scatola;

un piatto di spaghetti aglio, olio e peperoncino;

insalata di arance e cipolla;

pane con la mortadella;

pane col prosciutto cotto;

pane e basta (se voleva, però, poteva accompagnarlo con olio, sale e pepe nero)…

Qui arrivato, Pasquale non ne poté più.

“Ma, ci vuol tanto a fare un po’ di brodo caldo?” sbraitò.

L’indomani trovò il brodo…

Però, fatto col dado (e lui l’aveva sempre schifato).

“Non mi piace!” urlò.

“Ma, non volevi il brodo, ieri sera?” urlò Agata, a sua volta.

“Il brodo… Ma, non questo brodo!”

“Povera me! Tutto il giorno a tenere in ordine la casa che tu continui a disordinare! Non vedo un’amica da secoli! Mi sto trascurando da fare pietà! Mi sento di cinquant’anni più vecchia! Eppoi, eppoi, eppoi…”

Per non sentirla più, Pasquale si alzò e andò a letto senza cena.

Nella notte, però, decise di farla finita con la sceneggiata dell’impotenza. Purtroppo, Mazzacanagghia aveva ragione. Senza quella cosiddetta parte infinitesimale, la moglie s’era fatta una strega piena di rancori.

Ma, soprattutto, a farlo decidere definitivamente, fu un lampo nel cervello, che con improvvisa brutalità, illuminò per intero la perfidia di Crocifisso Mazzacanagghia.

Quella mattina Agata aveva chiesto – così… senza parere… come per caso, o per mera curiosità… – notizie proprio su Mazzacanagghia.

“So che gli piace la parmigiana…” aggiunse. “magari domenica la faccio e gliene mandiamo un po’…”

Ecco perché, quella sera stessa, tornato dal lavoro, Pasquale teneva col braccio diritto davanti a sé, in bella evidenza, una boccettina di liquido verde.

“Che cos’è” chiese Agata.

“Succo di mandragola!”

“Succo di che?”

“Mandragola! Miracoloso, secondo la medicina omeopatica… per quel piccolo accidente che sai.”

“Funzionerà?”

“Deve funzionare, se no mi ammazzo!… Ma, non perdiamoci in chiacchiere! Bisogna versarlo nella vasca da bagno…”

“Corro a riempirla!” urlò Agata e già armeggiava con i rubinetti.

Naturalmente, Pasquale uscì dal bagno gridando miracolo! e, lasciando peste d’acqua in tutta la casa, corse dalla moglie.

Il digiuno c’era stato, la meraviglia di Agata era tanta e troppo bisognosa di conferme…

Così, fu necessario ripetere il concetto almeno sette volte.

Alla fine, accendendosi una sigaretta, Pasquale chiese:

“Che si mangia, stasera?”

“Un po’ di pazienza, caro” disse Agata, di nuovo mogliettina, vispa e gentile come un passerotto. “Ti preparo il brodo di gallina come piace a te.”

La sorpresa fu che, quand’ella tornò con la tazza fumante, Pasquale, a rischio di una irrimediabile scottatura, vi immerse quella sua parte infinitesimale appena miracolata e sentenziò, rassegnato:

“Bevilo tu, il brodo… che a te, non a me, lo ha preparato!”